
Torneranno presto al loro splendore i murales di Sant’Omero. Abbiamo iniziato adesso con il restauro di quello più impegnativo, il “C’era una volta” di Antonio Rotondi lungo via Vittorio Veneto.
Abbiamo iniziato come Associazione “La Restanza” ma non solo e non soprattutto, perché tutto il paese è entusiasta e molti stanno contribuendo con sottoscrizioni, consigli e sostegno pratico. Anche l’Amministrazione comunale si è adoperata sin da subito come parte attiva per la restituzione di queste opere d’arte alla collettività.
Sta crescendo, giorno dopo giorno, una concreta partecipazione collettiva finalizzata ad un reale interesse pubblico, libero cioè da personali scopi o interessi, che è quello di voler rendere più bello, più godibile, il nostro già meraviglioso centro storico.
L’artista che si è fatto carico di questa impresa, Fabiano Di Damaso, potrà allora contare non soltanto del supporto dei suoi collaboratori ma su tutto un borgo di persone attive e determinate.
Come Associazione “La Restanza”, a nemmeno cinque mesi dalla nostra costituzione, ci sentiamo orgogliosi di aver proposto e dato il via ad un progetto di riqualificazione che adesso davvero può sostenersi sull’impegno di tutte e di tutti.
Se si dovrà ringraziare qualcuno per i murales di Sant’Omero, allora che la città di Sant’Omero ringrazi solo e soltanto se stessa.
Intervista a Fabiamo Di Damaso, curatore del recupero del murales di Antonio Rotondi a Sant’Omero, lungo Via Vittorio Veneto. Intervista svolta cura dell’Associazione “La Restanza Aps” in Sant’Omero il 01.09.2025.
Fabiano, tu sei un artista che vive in una piccola provincia italiana, non vivi del tuo lavoro di artista ma lavori in un’azienda locale. Come descriveresti il tuo rapporto con l’arte?
L’arte per me è una necessità, ma anche una maledizione. È il luogo in cui riesco a dire cose che non avrebbero spazio altrove, ma allo stesso tempo mi porta a non rimanere mai in superficie, a scavare sempre più a fondo. Questo, a volte, genera silenzi e sofferenze interiori. Nei miei lavori emergono spesso simboli e immagini stratificate: non mi interessa rappresentare semplicemente la realtà, ma entrare in dialogo con ciò che essa nasconde. Vivere in provincia significa avere meno occasioni, ma anche un rapporto più diretto con il territorio: molte immagini che da bambino vedevo sui muri sono rimaste dentro di me e ancora oggi nutrono quello che faccio. L’arte diventa così un dialogo continuo tra memoria personale e comunità.
Per la seconda volta ti cimenti in un murale, nobile forma d’arte popolare. Come ti trovi in questo peculiare “abito” artistico? E come è cambiato il tuo approccio dall’opera del ’95 a quella odierna?
Il murale lo vivo con emozione ma anche con grande responsabilità. Come la prima volta, avverto la paura di non essere all’altezza: il fatto che nessuno sia profeta in patria mi rende ancora più attento e concentrato. Nel ’95 mi lasciavo guidare soprattutto dall’entusiasmo giovanile e dall’istinto, oggi invece cerco di dosare meglio la spontaneità con la riflessione. So che un’opera murale resta nel tempo e diventa parte della memoria di chi la osserva, e questo mi spinge a pensare con cura al rapporto tra immagine, spazio e persone.
In questa occasione prendi il testimone di un autore – Antonio Rotondi – presente a Sant’Omero negli anni ’80. Come affronti l’eredità lasciataci dall’autore in “C’era una volta?”
Per me affrontare Rotondi significa entrare in dialogo con un artista che non è più qui ma che continua a parlare attraverso ciò che ha lasciato. Da bambino i suoi muri mi hanno colpito profondamente: quelle immagini hanno tracciato segni precisi nella mia memoria e credo che abbiano influenzato, anche senza che me ne rendessi conto, il mio percorso artistico. Oggi provo ad ascoltarlo attraverso quei frammenti visivi e attraverso i ricordi, cercando di proseguire una conversazione iniziata tanti anni fa. Il bozzetto che ho realizzato insieme alla giovane artista Gloria Waibl segue fedelmente il tema e la disposizione degli elementi dell’opera originaria, ma introduce leggere — e allo stesso tempo sostanziali — modifiche. Non si tratta quindi di un restauro, ma di un rifacimento: un lavoro che mantiene lo spirito di Rotondi, pur portando inevitabilmente la voce e la sensibilità del nostro tempo.
Rotondi esprime in quest’opera una visione circolare della vita agricola, rappresentando il contesto “fuori dalle mura” in cui è immersa la città di Sant’Omero, una realtà urbana che dialoga direttamente con i ritmi della vita contadina. Vi si rappresenta la nascita e la morte scanditi dalla ciclicità rurale. Esiste ancora oggi questa realtà o è diventato per sempre “C’era una volta?” (Accorcio la domanda): Rotondi esprime in quest’opera la nascita e la morte scanditi dalla ciclicità rurale. E’ ancora questa la cornice che definisce il paesaggio della nostra città o è diventato per sempre “C’era una volta?
Credo che quella realtà sia cambiata, ma non sia scomparsa. Oggi la vita agricola non ha più lo stesso ruolo di allora, ma i segni della ciclicità rurale restano nelle tradizioni, nella cultura del cibo, nel ritmo delle stagioni. E a distanza di anni mi accorgo che il tema di C’era una volta diventa sempre più attuale, e forse anche più comprensibile per un cinquantenne come me. Perché oltre a raccontare la ciclicità della vita contadina, questo dipinto porta con sé anche la ciclicità interiore: ognuno di noi attraversa fasi di nascita, crescita, morte e poi rinascita spirituale(non tutti purtroppo). Dentro l’opera sono presenti tanti archetipi universali — il sole, il frutto, l’albero, la madre — che non invecchiano mai e che parlano a tutti, indipendentemente dal tempo e dal contesto. È un lavoro che, più passa il tempo, più svela la sua profondità.
Come stai vivendo l’interesse del Paese intorno a questo grande restauro?
Lo sto vivendo con l’autoironia che mi contraddistingue, anche se dentro di me si celano sempre ansie e paure di tutti i generi. Non sento poi così tanto rumore intorno, forse perché chiudo le orecchie per riuscire a concentrarmi meglio. In un certo senso vivo tutto questo anche da spettatore: cerco di separarmi da me stesso e guardare il lavoro dall’esterno, quasi con la curiosità di chi passa per caso davanti al muro. Questo mi aiuta a non farmi schiacciare dalle pressioni e a osservare l’opera con occhi più liberi.
Per me questo lavoro non è un restauro ma un ponte: tra passato e presente, tra memoria e futuro, tra la vita concreta dei campi e gli archetipi universali che ci appartengono da sempre. Ho voluto mantenere il tema e lo schema compositivo dell’opera di Rotondi, perché fanno parte della memoria collettiva di Sant’Omero, ma allo stesso tempo ho introdotto cambiamenti nello stile e nei dettagli, così che il murales racconti anche la mia voce e il nostro presente.
Credo che l’arte serva a questo: a custodire le radici senza rinunciare a trasformarle, per lasciare alle generazioni future immagini che sappiano ancora parlare e interrogare. In questo percorso non sono solo: ho la fortuna di avere un’ottima squadra con le bravissime artiste Monia Frangioni di Sant’Omero e la giovane Gloria Waibl di Nereto, che con il loro contributo portano freschezza e sensibilità. E in fondo credo che l’arte, per sua natura, debba sempre essere donna: perché tutto nasce dal ventre di una madre, e la creazione onirica nasce da quell’emisfero destro del cervello che è la parte femminile presente in ciascuno di noi. È solo da lì che può germogliare l’amore universale — l’Agape — capace di fluire attraverso il cuore di tutti gli uomini di buona volontà