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Abruzzo

Vicenda Parco delle Rose: D’Alfonso assolto in Appello

Il fatto non costituisce reato

Abruzzo. “Con la sentenza odierna della Corte d’Appello, che mi assolve con la formula “perché il fatto non costituisce reato”, si chiude definitivamente una pagina dolorosa e travagliata della mia vicenda umana e politica, legata alla cosiddetta “giunta fantasma” per il Parco delle Rose di Lanciano. Una contestazione risalente al 3 giugno 2016, quasi nove anni fa”.

A dirlo in una nota è Luciano D’Alfonso, parlamentare del Pd, relativamente ad una vicenda legata a quando era presidente della Regione.
“Questa assoluzione giunge dopo la mia ferma decisione di ricorrere in appello avverso la prescrizione. Ho voluto, con tutte le mie forze, che emergesse la piena verità, non accontentandomi di una mera estinzione del reato per decorrenza dei termini. Volevo l’assoluzione nel merito, e così è stato”.

“Oggi, dopo vent’anni esatti dall’inizio della prima ondata di contestazioni giudiziarie che mi hanno riguardato, posso dire di aver chiuso la partita. Vent’anni. Un periodo lungo, faticoso, che tuttavia non ha fiaccato la mia determinazione né la mia fiducia nella giustizia, seppur messa a dura prova.
Sorge spontanea, e la pongo con serenità ma con altrettanta fermezza, una domanda cruciale: perché è stato necessario attendere il giudizio della Corte d’Appello per far emergere l’evidenza che “il fatto non costituisce reato”? Perché l’assoluta assenza di qualsivoglia condotta antigiuridica, che pure è stata minuziosamente procedimentalizzata, non è stata colta fin dai primi vagiti dell’inchiesta? Non dovrebbe essere compito precipuo di coloro che, contrattualizzati dallo Stato, conducono le indagini, quello di raccogliere anche gli elementi a favore dell’indagato, fin dai primi centimetri quadrati del loro operato?

In questa sede, desidero soprassedere sulla figura dell’avvocato dell’accusa. Intendo, invece, porre sotto la lente d’ingrandimento la condotta di due agenti a vocazione specialistica. Di costoro, ricordo con nitidezza i cognomi, la singolare “capacità” di approfondimento investigativo, la totale stranezza del loro discernimento. Conservo, inoltre, con profonda amarezza, il ricordo delle dinamiche che hanno interessato un testimone per me cruciale. La sua narrazione dei fatti subì significative modifiche nel tempo, e si trovò successivamente assistito da un legale la cui abilitazione ad esercitare in Italia appariva meritevole di ulteriori e doverose verifiche.

Tutto questo fardello ha trovato in me un uomo che non ha tralasciato nulla, che ha combattuto con ogni energia. Ma mi chiedo: se al mio posto si fosse trovato un cittadino qualunque, magari meno avvezzo alle aule di giustizia o più incline all’abbandono di fronte a tali pressioni, quale livello di giustizia sarebbe emerso? Si afferma che il processo sia deputato ad accertare la “verità processuale”, distinta dalla “verità fattuale” che appartiene alla sfera del divino. Ebbene, la vicenda che mi ha visto coinvolto non apparteneva né all’una né all’altra categoria: era, consentitemi il termine, una “baraccata”, un castello di accuse che nulla aveva a che vedere né con i fatti né con un corretto procedimento giudiziario.

Ora, il mio impegno sarà volto a comprendere a fondo le ragioni, le motivazioni che hanno spinto quei due contrattualizzati dallo stato ad architettare un simile “spettacolo” investigativo. È un dovere che sento verso me stesso, verso la mia famiglia, e verso tutti i cittadini che credono ancora in una giustizia giusta. Mi chiedo: perché non accadano più queste trappole che catturano la vita delle persone, in particolare di quelle meno provviste di mezzi e opportunità, c’è bisogno di nuove norme? Mi sono posto più volte anche questa domanda. Credo, però, che sia più urgente una migliore, più adeguata e ripetuta formazione di chi deve accertare i fatti, sia per cogliere la realtà di un mondo sempre più complesso, in cui non tutto quello che appare non conforme ai miei schemi interpretativi è di per sé anomalo o, peggio, viziato, sia per una intelligenza più vera dei diritti di ogni cittadino, che la Repubblica non concede, ma riconosce. L’indagato non deve essere oggetto di antagonismo. Se la verità è la sposa di chi serve lo Stato, si può e si deve essere felici quando alla fine di un procedimento viene assolta la persona a carico della quale si erano raccolte prove a sfavore nella fase iniziale delle indagini.

Con la sentenza di oggi, si chiude un ciclo ventennale. Guardo avanti, con la serenità di chi ha sempre operato nella piena legalità e con l’esclusivo intento di servire la propria comunità.
Ringrazio i miei avvocati, in modo particolare Mirko D’Alicandro e Giuliano Milia, che hanno dovuto sopportare la mia insistenza e i miei collaboratori. Esprimo gratitudine repubblicana ai magistrati di primo e di secondo grado per il loro impeccabile esercizio della giurisdizione. Infine, chiedo scusa ai miei colleghi di giunta, perché forse a causa mia sono stati travolti da una postura accusatoria sbagliata”.

 

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